Vi Presento Pazi: Un Anno Dopo
Di:
Pamela Kerpius
Traduzione:
Paolo Frasca, Ph.D.
Vi presento Pazi: un anno dopo
Si era fatto buio e io e Pazi camminavamo velocemente per le strade del centro di Roma, lustrate dalla pioggia. L’autobus che lui doveva prendere sarebbe partito tra venti minuti ed eravamo ancora a Piazza Navona, dall’altro lato della città e del Tevere. Se avesse perso l’autobus, avrebbe dovuto passare la notte per strada. Era l’ultimo autobus: uno dei due autobus più un treno che non poteva perdere per compiere il suo viaggio di tre ore verso l’alloggio statale dove vive, a 15 miglia (24 chilometri) di distanza da dove ci trovavamo.
Pazi (27 anni, gambiano) era stato trasferito in questo alloggiamento dopo aver lasciato Lampedusa nell’autunno del 2016. Lo scorso aprile, avevo noleggiato una macchina e ero andata a trovarlo per vedere come si stesse trovando dopo la prima accoglienza sull’isola.
Quando sono andata a trovarlo ad aprile, cercavo qualcosa che ricordasse un condominio, ma la zona era deserta. La macchina ha esitato a procedere oltre la fine di una complanare dimenticata e oramai ricoperta da erbacce, e io ho rivolto uno sguardo strabico e confuso al mio navigatore. Ho notato una ragazza nera sul ciglio della strada; era una prostituta. La mia speranza, contro il mio istinto intenditore, non voleva fosse la sua presenza ad indicarmi di essere giunta a destinazione, invece mi trovavo nel posto giusto.
La strada continuava un po’ per poi smozzarsi all’inizio di un parcheggio davanti a una palazzina di due piani. È il tipo di edificio che ci si aspetterebbe di trovare in un complesso di uffici, non di certo un posto abitabile. Ho pensato erroneamente che fosse una struttura abbandonata fin quando non ho seguito il percorso segnalato dal filo spinato che la circondava, raggiungendo quindi una piccola cabina di sorveglianza adiacente all’entrata. Qui, piccole comitive di donne e uomini neri entravano ed uscivano, percorrendo il parcheggio sotto uno snervante sole primaverile: tutto questo ben nascosto, anche se alla luce del giorno.
Il responsabile del campo ha chiamato i rinforzi e ha alzato la voce al mio arrivo. Con prontezza, ho spinto la fotocamera verso il fondo della mia borsa. I carabinieri sono emersi dalla cabina con delle pistole appese alle spalle, mi hanno circondato e mi hanno confiscato il passaporto. Uno di loro lo ha portato all’interno della cabina per ispezionarlo. Il responsabile del campo ha chiesto di sapere il motivo per cui mi trovassi lì, il tono e il volume della sua voce coniugati da un sottofondo di colpevolezza. Pazi rimaneva in piedi al mio fianco, come un bambino che vuole difendere un compagno nel cortile della scuola.
Li ho assicurati del fatto che non fossi una giornalista investigativa, cosa che li preoccupava, da come mi hanno fatto capire. Ho stretto la mano al responsabile in segno di pace. Ho spiegato loro che ero una scrittrice, che seguivo la storia di Pazi, ma anche che lui era mio amico – dopo essermi resa conto delle condizioni di quel luogo, però, avevo voglia di fare proprio ciò che loro temevano.
Mi hanno restituito il passaporto, dicendomi di non parlare con altre persone. Io e Pazi abbiamo chiacchierato un po’ camminando sul viottolo che accompagnava il ferro spinato e abbiamo deciso che, da allora in poi, ci saremmo visti a Roma. Un mese dopo, a maggio del 2017, abbiamo fatto una lunga passeggiata per la città: a Piazza di Spagna, sormontando schiere di turisti, muovendoci lentamente sul lungotevere, fermandoci ad osservare il fiume che scorre accanto a Castel Sant’Angelo, tutto mentre Pazi descriveva i suoi incubi: immagini di corpi che venivano tagliati e aperti, ricordi di quando era stato prigioniero in Libia.
Purtroppo, le pessime condizioni di vita in quelle abitazioni isolate non dà speranza di lenire questi terribili ricordi. A maggio, Pazi e il suo amico constatavano la presenza di più di 4,000 persone nella struttura, la maggior parte delle quali provenienti dall’Eritrea, ma anche da altri posti. Non c’era quasi mai acqua calda per lavarsi. I dirigenti li intimidivano. C’erano acari sui muri e sulle lenzuola. Pazi non era certo che le prostitute che si vedevano per la città vivessero nella sua stessa struttura, ma sapeva che erano giovani nigeriane.
Ci siamo visti di nuovo a Roma nel novembre del 2017, in occasione del primo anniversario del suo soggiorno in Italia. Ci siamo incontrati davanti al Vaticano: è ormai il nostro punto di incontro fisso, grazie alla sua centralità e, va da sé, alla sua bellezza.
Qualche giorno a settimana, Pazi frequenta delle lezioni di lingua date da insegnanti volontari in città, e mentre un anno fa, a Lampedusa, sapeva solo dire “ciao,” ora riesce a produrre delle frasi compiute in italiano. Ha ricevuto diversi certificati per attestare il suo livello di padronanza della lingua. Gli piacciono la scuola e gli insegnanti, “Ci adorano,” racconta, “quando arriviamo, ci sorridono.”
Ciò non succede dappertutto, che le persone gli sorridano. In autobus, Pazi si è sentito dire “Vaffanculo” quando si è seduto accanto a qualcuno. È stato chiamato “pezzo di merda,” oppure gli è semplicemente stato detto di andarsene via.
“È assurdo,” osserva Pazi, più meravigliato che adirato.
Abbiamo camminato per ore. Ci siamo fermati sul Ponte Regina Margherita, un incrocio principale che porta a una delle piazze più importanti della città, Piazza del popolo. Guardavamo il fiume che scorreva – Pazi si ferma spesso ad osservare le cose. Abbiamo parlato di cosa significhi venire da un altro paese e sentirsi incompresi, di cosa voglia dire essere un uomo nero in Italia, dove non sei considerato uguale agli altri.
Ma “siamo uguali,” ribadisce.
Abbiamo passeggiato per Via di Ripetta, un’arteria pedonale centrale. Mi ha raccontato che ancora, a volte, si sveglia piangendo; la Libia non lo lascia in pace. I turisti erano dappertutto e la loro presenza rendeva surreale il divario tra ciò che dicevamo e ciò che avevamo davanti agli occhi.
Improvvisamente, ci siamo trovati davanti al Pantheon, e io l’ho spronato ad entrare a vedere questa magnifica struttura, la quale lui non aveva mai visto prima. Gli ho detto di mettersi al centro del pavimento per guardare attraverso il foro e vedere il cielo. “Quando piove, dentro non si bagna,” gli ho spiegato, e lui lo ha trovato eccezionale.
Ci siamo seduti in un bar e mi ha aggiornato un po’ sui cambiamenti avvenuti dall’ultima volta che ci eravamo visti a maggio. Gli acari ancora infestavano la sua stanza. “Ormai abbiamo fatto amicizia,” ha concluso con spirito di resa. Vede le macchie di sangue sulle lenzuola la mattina quando si sveglia. “Cosa devo fare? Sono miei amici. Devo viverci. Non posso farci nulla.”
L’acqua di solito è troppo fredda per potersi fare un bagno; deve bollire dell’acqua in pentola per poi mischiarla a quella fredda della doccia. Ora ci sono anche dei topi nella sua stanza. “È per questo che non permettono a nessuno di entrare per vedere cosa c’è all’interno,” mi spiega, osservando che i dirigenti potrebbero finire nei guai.
Esausto di doversi cibare dello stesso piatto di pasta o riso ogni sera da un anno a questa parte, Pazi ha iniziato ad inzuppare del pane nell’acqua come alternativa più tollerabile. Poi, come un vero italiano, cedendo alla bellezza che si trovava davanti agli occhi e sembrando di dimenticare, per un attimo, tutto il resto, ha mischiato il caffè allo zucchero ed, espirando, ha dichiarato,
“Il cappuccino è buono.”
Si stava facendo tardi e iniziava anche a piovere. Dovevamo andare. Non volevo perdesse l’autobus, ma volevo continuare a parlargli. Andavamo di fretta ed eravamo affannati. Passava un’ambulanza e non ci capivamo.
Volevo sapere cosa direbbe a un italiano, a un europeo, a un americano, in modo che non abbiano paura del colore della sua pelle.
“Siamo tutti uguali. Se mi apri il petto, ci trovi un cuore rosso. Vale anche per loro,” mi ha detto mentre riusciva per un pelo a beccare l’autobus e io lo guardavo salire a bordo.
Pazi è un essere umano straordinario.
Leggi la storia originale del viaggio di Pazi, risalente al novembre del 2016 ›
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